STEFANIA CELENZA: “Il crollo della natalità degli italiani c’è nonostante la crescita del benessere materiale. Solo il recupero dei valori ci salverà dal collasso del sistema sociale e dall’estinzione”

I problemi, per poter essere risolti, vanno prima capiti. La cicogna non vola più da anni, soprattutto nei cieli italiani. Dobbiamo innanzitutto capire perché.

Ecco una breve indagine demografica che può fornire utilissime risposte.
Possiamo iniziare dalla osservazione delle cosiddette piramidi delle età.
Le piramidi delle età permettono di visualizzare la composizione di una popolazione in base all’età e al genere dei suoi componenti.
L’asse verticale della piramide delle età raffigura le classi d’età della popolazione rappresentata (solitamente di 5 anni ciascuna), ovvero la percentuale di persone nate in un determinato periodo di tempo, a partire dalla classe più giovane, rappresentata dai bambini fino a quattro anni d’età.
La piramide suddivide la componente maschile (solitamente a sinistra dell’asse verticale) e femminile (solitamente a destra dell’asse verticale) di ciascuna classe di età.
L’asse orizzontale indica, invece, la percentuale con la quale ciascuna classe di età contribuisce al totale della popolazione. La forma intera della piramide è determinata in particolare dai tassi di natalità e se ne possono individuare tre principali categorie.

La forma di vera piramide, a base ampia, rappresenta nazioni a forte crescita, come le Filippine, la piramide, invece, che si restringe solo alla base, per poi allargarsi, indica popoli a crescita lenta, come l’Australia, mentre la piramide con il vertice molto ampio e la base stretta rispecchia una popolazione in declino, come l’Italia.



La base stretta, infatti, indica che le nascite sono in diminuzione, mentre il rigonfiamento lo si trova a livello delle classi di età intorno ai 45/60 anni, che sono quelle nate nel baby boom degli anni sessanta (United States Census Bureau, Centro Programmi Internazionali, Banca Dati Internazionale).

I demografi osservano con particolare attenzione la popolazione di età inferiore ai 15 anni o superiore ai 65, ovvero quella fascia di persone che vengono definite “dipendenti”, in quanto non sono o non sono più in età lavorativa, non in grado di procurarsi i mezzi di sussistenza.
Conoscere “l’indice di dipendenza” di un Paese permette di fare previsioni sul futuro, in base alla sua evoluzione demografica. L’indice di dipendenza si calcola dividendo il numero delle persone con meno di 15 anni o più di 65, per quello di chi è in età lavorativa e moltiplicando il risultato per 100. Più ci si avvicina a 100 in questa proporzione e più alto diventa l’indice di dipendenza.
Un indice di dipendenza di 100 indica che il numero dei lavoratori e quello delle persone troppo giovani o troppo anziane per lavorare sono identici.
Come prospettiva di economia politico sociale è molto interessante osservare, invece, se l’indice di dipendenza sia principalmente costituito da infra-quindicenni o da ultra-sessantacinquenni.
Il primo è un valore attivo, destinato a progredire e a rafforzare il mondo del lavoro, mentre il secondo è un valore passivo, necessitando solo di interventi di assistenza (cure mediche, assistenza, case di riposo).
Un altro elemento di analisi demografica è il cosiddetto “Tasso di crescita naturale”. Una popolazione ha un “tasso di crescita naturale” quando il numero delle nascite è superiore al numero delle morti. Spesso i demografi si servono dei tassi di crescita naturale, per calcolare il tempo di raddoppio della popolazione, ovvero il numero di anni necessario affinché questa duplichi le proprie dimensioni. Ciò consente di mettere in relazione le attuali tendenze demografiche di una certa popolazione, con la sua effettiva consistenza futura.
Per calcolare questo dato, si divide il numero 70 per il tasso di crescita naturale. In Etiopia, dove il tasso di crescita naturale è del 2,4%, il tempo di raddoppio della popolazione è di soli 29 anni, mentre in Spagna, dove la crescita naturale è dello 0,2%, il tempo di raddoppio è di ben 350 anni.

Dunque, all’Italia, che ha attualmente un tasso di crescita naturale di -0.6%, occorreranno 816,60 anni per vedere raddoppiata la sua popolazione, ovvero quasi un millennio.

Ma il fenomeno va compreso in profondità, fin dalle origini della transizione demografica in generale. Nel periodo storico pre-industriale (prima del 1750), cosiddetta Fase 1, il tasso di crescita naturale era molto basso, perché la grande incidenza delle morti, anche infantili e della bassa prospettiva di vita (circa 30 anni) non era sufficientemente compensata dalla altissima natalità.
L’alta natalità costituiva una strategia familiare affinché aumentassero le probabilità che almeno alcuni figli raggiungessero l’età adulta. Oggi, nessun Paese al mondo si trova più nella Fase demografica 1.

Nel periodo proto industriale (1750-1880), cosiddetta Fase 2, il tasso di crescita naturale era molto alto, perché i tassi di mortalità calarono drasticamente, a fronte della natalità rimasta alta. Il calo della mortalità deve essere ascritto ai progressi della medicina, alla diffusione di una alimentazione più sana ed al miglioramento delle qualità dell’ambiente di vita (acqua corrente, fognature, etc).
Oggi si trovano nella Fase 2 l’Arabia Saudita, il Pakistan, il Kenia ed il Guatemala.

Nel periodo tardo industriale (1880-1970), cosiddetta Fase 3, il tasso di crescita naturale era in declino, perché a causa della industrializzazione ed urbanizzazione (fattori di progresso), cambiarono i bisogni sociali (non vi era più bisogno di famiglie numerose) e le opportunità (aumento del lavoro femminile), generando un decremento dei tassi di natalità.
Oggi si trovano nella Fase 3 l’Indonesia, l’Algeria, l’India ed il Messico.

Nel periodo post industriale (1970-oggi), cosiddetta Fase 4, il tasso di crescita naturale è tornato ad essere basso, come prima del 1750. Al contrario di quel periodo, a fronte dell’allungamento della età media (bassa mortalità), si registra una ancora più bassa natalità. I bassi tassi di natalità vengono attribuiti al miglioramento degli standard di vita ed a livelli più alti di istruzione, sopratutto fra le donne.
Oggi si trovano nella Fase 4 il Canada, la Cina, gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e l’Italia (Geografia Umana di Alberto Vanolo-Utet Università).

Secondo l’Istat, il fenomeno della diminuzione delle nascite in Italia è legato principalmente all’uscita dall’età riproduttiva delle generazioni più numerose come quella del cosiddetto baby boom (nate da genitori che provenivano dalla guerra) e la loro sostituzione da parte di una generazione decisamente meno numerosa, che è nata dopo la metà degli anni Settanta (all’indomani, cioè dei noti movimenti di contestazione sociale e politica). Questo è il dato tecnico.

Ma osserviamo il dato culturale. Perché dagli anni Settanta si è cominciato a fare meno figli?
Come si vede, è proprio l’elevazione socio, tecno-culturale che, seppur riducendo la mortalità, non è contestualmente in grado di sostenere la natalità. Dunque, ne deriva che non sono più cause contingenti ad ostacolare la crescita demografica (come la mancanza di servizi, di igiene, di medicine o come guerre, epidemie o disastri metereologici), ma sono esclusivamente fattori psico-sociali.
Al primo posto vi è la emancipazione della donna dal suo ancestrale ruolo di mera produttrice di “prole” e poi, a seguire, la inevitabile crisi della famiglia, istituzione primitivamente deputata per l’appunto proprio alla generazione di figli.

Oggi che vengono ampiamente soddisfatte tutte le esigenze esistenziali primarie e che non vi è più alcuna emergenza legata alla sopravvivenza, proprio oggi ci spetta il compito più difficile.
Occorre, adesso, accostare alle migliori ed indubbie conquiste della scienza e della tecnologia contemporanee, il ritorno ai valori etici, morali e spirituali che hanno fatta grande la civiltà umana e quella mediterranea, in particolare.
Non di solo pane vive l’uomo.
Adesso che abbiamo di che vivere, dobbiamo occuparci di tutto il resto.


Stefania Celenza

Avvocato, Esperta di Diritto di Famiglia e minorile

Signa, 17 dicembre 2022

2 commenti su “STEFANIA CELENZA: “Il crollo della natalità degli italiani c’è nonostante la crescita del benessere materiale. Solo il recupero dei valori ci salverà dal collasso del sistema sociale e dall’estinzione”

  1. Cara Stefania, è vero. Non si fanno più figli. Prima si diceva “mi sposo per fare i figli”. Oggi si sposano per “fare i cani”. Mi spiego meglio. Avendo annacquato, io direi stuprato, il concetto di famiglia (la famiglia è dove c’è amore, amore tra due uomini, amore per un cane, amore per la casa) i figli sono scomparsi. I figli sono un problema, ti deturpano il corpo quando li aspetti e non puoi più fare le foto belle su Instagram, i figli ti stancano, insomma sono impegnativi. Meglio un cane. È ora di ritornare all’unico concetto di famiglia: madre, padre, figli. È ovvio che ci deve essere l’amore inteso però come amore per il progetto di vita insieme, amore per la nuova vita che si intende creare, custodire, difendere. Se vi amate e volete mettere su famiglia con un cane, apritevi un canile. Almeno è redditizio! Se vi amate e volete mettere su famiglia con bambini, allora combattete per farlo. Può essere faticoso ma è l’unica straordinaria maniera di dare un senso alla parola famiglia e alla vostra unione.

Lascia un commento

error: Questo contenuto è protetto