STEFANIA CELENZA: “Testo della conferenza “La crisi della famiglia. Il futuro degli italiani?” (10 maggio 2023)”

Cari amici, ci siamo confrontati spesso, purtroppo, su questi temi, negli ultimi tempi. Più ci aggiorniamo su tali argomenti e più la condizione sociale, culturale, politica ed economica italiana peggiora. Ogni giorno di più.
Per questo motivo, adesso, è necessario risorgere verso una prospettiva costruttiva di svolta.
Credo che sia esattamente ciò che stiamo facendo nella Casa della Civiltà.
Ho preparato questa relazione anche prendendo spunto da alcuni articoli già pubblicati nella Rubrica “Famiglia e Natalità”, perché, seppure frammentati su varie tematiche, il filo conduttore resta unico.

Comprendere il problema ed individuare la soluzione. Questa è la chiave.
Per fare ciò, preferisco iniziare dalla seconda parte del titolo, il “Futuro degli Italiani”, per analizzare, successivamente, la nota “Crisi della Famiglia”, restando indiscusso che l’uno dipenda intrinsecamente dall’altra.
Prima di parlare di futuro degli italiani, vediamo il loro, il nostro presente.
Ad oggi abbiamo solo cattive notizie.
Esaminiamone due, a mio avviso, estremamente connesse.
a) Allarme pressione fiscale.
La pressione fiscale reale italiana ha raggiunto ormai il 49%, il livello più alto d’Europa. Nel 2019 era al 48,2%.
Il dato è fornito dal Consiglio nazionale dei commercialisti (Tommaso Di Nardo e Pasquale Saggese, ricercatori della Fondazione nazionale della categoria), che afferma come «la pressione fiscale reale, il sacrificio cioè realmente imposto alla collettività, che opera nell’economia emersa, è di gran lunga più elevato di quello ufficialmente registrato dall’Istat per tutta l’economia, determinando un livello particolarmente elevato della pressione fiscale reale, pari nel 2019 al 48,2%, nel 2021 raggiunge il 49% del Pil emerso, portando l’Italia al primo posto in Europa».
Nel 2022 la pressione fiscale in Italia è ancora aumentata rispetto all’anno prima. Il motivo di questa crescita nell’ultimo anno è che, come ha spiegato l’Istat, le tasse e i contributi sono aumentati più di quanto sia salito il Pil. Attenzione a questo binomio, TASSE e PIL.

Passiamo alla seconda cattiva notizia.
b) Prosegue il crollo delle nascite in Italia.
L’ultima rilevazione Istat sulla natalità in Italia, descritta dal Presidente Carlo Blangiardo, descrive il record negativo dei nuovi nati, che quest’anno scenderanno alla quota mai toccata prima delle sole 385 mila nascite, cifra addirittura peggiore di quella del 2021. Una situazione assai preoccupante, che ci vede tra i Paesi peggiori sotto questo punto di vista anche a livello europeo (ad esempio, in Francia, ogni anno, cresce il numero degli abitanti). Adesso uniamo a) + b).
Lo stesso Prof. Blangiardo prevede ripercussioni assai gravi nel prossimo futuro degli italiani. Poiché sembra essere irreversibile, il fatto più grave che ne deriva è che il calo della popolazione avrà contraccolpi importanti anche sul quadro economico. L’effetto più immediato sarà la contrazione del valore del Pil. Ad oggi i lavoratori attivi presenti sul territorio nazionale, nella fascia che va dai 20, ai 66 anni sono circa 23 milioni, continuando con il il trend generale, nel 2032 ci sarà una diminuzione di oltre 2 milioni di cittadini. Meno gente che lavora, meno gente che vive, produce, consuma e acquista. Ecco collegato il binomio TASSE e PIL. Fin quando la demografia non incrementerà il PIL, lo Stato non avrà altro mezzo per far fronte alle cospicue spese pubbliche se non quello di alzare le tasse. Qualsiasi partito sia al Governo non potrà fare diversamente. Senza cittadini che producono è IMPOSSIBILE abbassare la pressione fiscale.
Questo è un dato economico scientifico indiscutibile.

Non solo. Il calo demografico ha un risvolto estremamente urgente anche in tema previdenziale. Perché se non nascono bambini oggi, tra vent’anni non ci saranno nuovi lavoratori, e se non ci saranno nuovi lavoratori che versano contributi il sistema previdenziale italiano non reggerà.
Lo stesso presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, evidenzia da tempo le criticità di queste previsioni relative alla previdenza. Oggi ci sono 23 milioni di lavoratori e 16,5 milioni di pensionati. Il rapporto è di 1,4 e, secondo i demografi dell’Inps, è destinato a scendere a 1,3 tra dieci anni e a 1 entro il 2050. Significa che ogni lavoratore con i suoi contributi dovrà pagare una pensione intera. E’ lapalissiano che il sistema non può reggere.
Una serie di ricerche e analisi sui cambiamenti demografici (finalizzate allo studio dei flussi elettorali) negli Stati Uniti (citate nel 2018 dalla giornalista dell’Atlantic Olga Khazan) ha associato i tassi di fecondità alla economia. Dove le popolazioni sono densamente concentrate e in crescita si registra, secondo queste ricerche, una crescita delle economie, dove invece le popolazioni diminuiscono le economie ristagnano o sono in declino.
Si vede, in conclusione, che il calo delle nascite, in quei paesi che ne sono più interessati, come l’Italia, possa rappresentare un indebolimento dell’economia in prospettiva futura e che una popolazione più anziana possa determinare un minor numero di lavoratori, “capovolgendo” il modo in cui le nostre società sono attualmente organizzate.
Sempre parlando dell’Italia, è necessario che le nascite salgano dalle meno di 400 mila attuali, ad almeno 500-600 mila unità all’anno (non è un traguardo irraggiungibile. Possiamo farcela!). Solo in questo modo il rapporto tra lavoratori e pensionati tra vent’anni risalirebbe a 1,5 e renderebbe il sistema nuovamente sostenibile.

Bene, essendo ora chiaro qual’è il fulcro del problema del nostro futuro, passiamo alla prima parte del titolo, La crisi della Famiglia, in Italia.
E’ la famiglia che consente la riproduzione della cittadinanza.
Crisi della famiglia=Crollo delle nascite.
I matrimoni, in Italia, diminuiscono in media al ritmo di circa 10.000 l’anno. La preoccupante diminuzione delle nascite, in atto in Italia, da oltre 30 anni, ha determinato una netta riduzione della popolazione nella fascia di età in cui si accede al primo matrimonio, ovvero quella tra 16 e 34 anni, diminuita di circa 10 milioni e 500.000 unità, rispetto al 2008 (Dati ISTAT). Ciò dipende anche dal fatto che l’innalzamento dell’età media del primo matrimonio (che peraltro incide sulla fertilità dello stesso matrimonio) è la conseguenza del rinvio verso età sempre più mature del processo verso lo stato adulto dell’individuo.

In stretta connessione si osserva la fortissima instabilità coniugale.
Il divorzio, come sappiamo, è diventata la tappa fisiologica di ogni matrimonio, perché la propensione alla separazione e al divorzio, la cui la tendenza alla crescita è in atto da decenni, è oggi altissima.
Già nel 2015 si era registrato un consistente aumento del numero di divorzi che avevano raggiunto 82.469 casi, secondo una percentuale maggiore del 57%, rispetto al 2014 (Dati ISTAT). Sembra che persino la crisi pandemica abbia contribuito ad accelerare il fenomeno, portando ad un vero boom di separazioni. Il rapporto Istat “Matrimoni, unioni civili, separazioni e divorzi” riferito al 2021 rileva un ritorno ai livelli pre-pandemici per le separazioni, che avevano registrato un fermo solo a causa del lockdown. Nello specifico sono 97.913 le separazioni registrate, ben il 22,5% in più rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda i divorzi, i numeri salgono ulteriormente, 83.192, ossia +24,8% rispetto al 2020.
Dunque: calano i matrimoni e aumentano i divorzi.
Come facciamo a stupirci del calo della natalità?

E’ chiaro che il matrimonio e la famiglia non rappresentano più un ideale di vita. Per i giovani italiani, dunque, il matrimonio e la costruzione della famiglia non costituisce un progetto di vita, ma, una esperienza sempre più vacillante.
Sovente si giustifica questo fenomeno con motivazioni prettamente economiche (incertezza reddituale, abitativa, mancanza di prospettive, etc.).
Sono fermamente convinta che il crollo della natalità trovi le sue cause principalmente nella progressiva perdita di valore della coppia, della famiglia e del matrimonio. Per questo non mi paiono esaustive le proposte politiche per la famiglia che prevedano soltanto interventi onerosi per lo Stato e che comportino spostamenti di bilancio (costo degli asili nido, assegno alle casalinghe, assegno per i figli), perché troppo vincolate alla materialità del momento (politico) e del rimedio (disponibilità finanziarie).
La risposta non dobbiamo mai aspettarcela dalla politica, da questa politica. Per lo stesso motivo per il quale Cristiano Magdi Allam ci sconsigliava di andare a votare lo scorso 25 settembre. Qualsiasi sussidio economico ben venga, naturalmente, ma, secondo me, occorre intervenire primieramente sui valori.
La grande maestra che è la Storia ci insegna che la generazione di figli non è mai stata collegata e condizionata al benessere dei genitori. Anzi, è stata solo la fecondità e la capacità procreativa il principale oggetto di tutela.
Il matrimonio è sempre stato, fin da tempi immemori, la soluzione giuridico- istituzionale, per eccellenza (è stato inventato apposta), per avere la garanzia di procreazione e di rigenerazione della società, della cittadinanza, del regno, dell’impero o della repubblica che dir si voglia.
Qualunque sia la forma di governo, per esistere ha bisogno di cittadini. Questo concetto elementare è stato ben chiaro, da subito, ai nostri progenitori, fin da epoche preistoriche.

Nell’Antico Testamento, il termine aramaico Shrbt’ non significa soltanto Matrimonio, ma indica l’unione legalizzata di un uomo, con una donna che procreano.
Nel Diritto Romano, l’effetto fondamentale del Matrimonio, come istituto giuridico, è la “legittimazione dei figli” che vengano a nascere al suo interno.
Al principio dell’Impero Romano, per porre un freno al malcostume ed allo spopolamento, l’imperatore Augusto impose addirittura un obbligo a contrarre matrimonio, fra uomini e donne che si trovassero in età fertile (Lex Iulia de maritandis ordinibus – 18 a. C.). Come sanzione all’obbligo matrimoniale e come stimolo alla procreazione erano inflitti forti svantaggi patrimoniali ai celibi e agli ORBI. Ricordate chi erano gli ORBI? Erano i coniugati senza figli. Parallelamente erano concessi considerevoli vantaggi agli sposi fecondi, sopratutto se la prole era numerosa. Dunque la massima attenzione è sempre stata rivolta alla procreazione, piuttosto che al preventivo benessere economico dei genitori, come si vuole oggi. A titolo di esempio, pongo l’attenzione sulla etimologia del termine proletario: dal lat. proletarĭu(m), deriv. di prōles “prole”; in orig. “chi non possiede altri beni oltre ai propri figli”. Genericamente, si intende per proletariato la massa delle classi con redditi bassi o minimi, in contrapposizione alle minoranze detentrici del potere economico. Il termine ebbe origine in età romana e indicava, a Roma, la classe inferiore, i cittadini privi di beni materiali, possessori dell’unico patrimonio costituito dai loro figli (proles).
Dunque, come si vede, l’atto di procreare non è necessariamente connesso al possesso di un patrimonio, ne’ reddituale, ne’ immobiliare.
Peraltro, sono proprio le leggi della natura che regolamentano la vita umana: L’età di maggiore fertilità (20-30 anni) corrisponde ad una prima giovinezza tardo adolescenziale che connota appunto le fasi iniziali della realizzazione umana e professionale, dunque incompatibile con un completamento esistenziale ed economico, a motivo della immaturità esperenziale propria dell’età.
Per tornare alla analisi storica, in età contemporanea, fu già la Grande Guerra a provocare un grande crollo della natalità e della fecondità e, dopo un breve momento di recupero, la crisi economica del 1929, agì ancora in senso negativo. Negli anni Trenta tutti avevano considerazioni assai pessimistiche sull’ «irresistibile declino» europeo. Nella più prolifica Italia si passò da 4,3 figli per donna, prima della guerra, a 4 nei primi anni Venti, a 3,3 nel 1930- 31 e a 2,9 nel 1935-37. Tali tendenze alla denatalità divennero ovunque ben evidenti, sopratutto a causa delle loro conseguenze sulle esigenze militari. Dal 1927, infatti, il fascismo seguì una politica di incentivi ai matrimoni e alle nascite, con premi alle famiglie numerose, e di penalizzazione del celibato. Mussolini affermò che «la decadenza è il destino degli imperi che vedono diminuire il numero delle nascite». *(inserire immagine con frase di Mussolini)

Nel 1944 – ’45, le popolazioni si trovarono a passare, da un regime “antico” di alta natalità e alta mortalità, a uno “moderno” di bassa natalità e bassa mortalità.
Tuttavia, a guerra finita, la natalità, invece di proseguire nel suo trend di diminuzione, prese a crescere in tutto il mondo occidentale. Il fenomeno fu battezzato negli Stati Uniti, come “baby boom”. Nel frattempo la mortalità infantile era diminuita e in tutto l’Occidente, i matrimoni erano diventati più numerosi, precoci e fecondi, segno di un ottimismo di fondo, magari inconscio, collegato alla fine della guerra e al corrispondente boom economico. Comunque, dal 1965-67 il baby boom si esaurì ovunque, fino ad arrivare ad oggi. Complici della già detta crisi delle famiglie e delle nascite sono state tutte le politiche post 68 che hanno cavalcato le ideologie di pseudo liberazione/autodeterminazione della donna, dall’aborto, al divorzio, alle odierne teorie del gender. Ma torniamo alla mera analisi scientifica.
Un elemento di analisi demografica è il cosiddetto “Tasso di crescita Naturale”. Una popolazione ha un “tasso di crescita naturale” quando il numero delle nascite è superiore al numero delle morti. Spesso i demografi si servono dei tassi di crescita naturale, per calcolare il tempo di raddoppio della popolazione, ovvero il numero di anni necessario affinché questa duplichi le proprie dimensioni. Ciò consente di mettere in relazione le attuali tendenze demografiche di una certa popolazione, con la sua effettiva consistenza futura.
L’Italia, che ha attualmente un tasso di crescita naturale di -0.6%, occorreranno 816,60 anni per vedere raddoppiata la sua popolazione, ovvero quasi un millennio.

Ma il fenomeno va compreso in profondità, fin dalle origini della transizione demografica in generale.

  • Nel periodo storico pre-industriale (prima del 1750), ovvero, la cosiddetta Fase 1, il tasso di crescita naturale era molto basso, perché la grande incidenza delle morti, anche infantili e della bassa prospettiva di vita (c.ca 30 anni) non era sufficientemente compensata dalla altissima natalità. L’alta natalità costituiva una strategia familiare affinché aumentassero le probabilità che almeno alcuni figli raggiungessero l’età adulta. Oggi, nessun paese al mondo si trova più nella Fase demografica 1.
  • Nel periodo proto industriale (1750-1880), cosiddetta Fase 2, il tasso di crescita naturale era molto alto, perché i tassi di mortalità calarono drasticamente, a fronte della natalità rimasta alta. Il calo della mortalità deve essere ascritto ai progressi della medicina, alla diffusione di una alimentazione più sana ed al miglioramento delle qualità dell’ambiente di vita (acqua corrente, fognature, etc). Oggi si trovano nella Fase 2 l’Arabia Saudita, il Pakistan, il Kenia ed il Guatemala.
  • Nel periodo tardo industriale (1880-1970), cosiddetta Fase 3, il tasso
    di crescita naturale era in declino, perché a causa della industrializzazione ed urbanizzazione (fattori di progresso) cambiarono i bisogni sociali (non vi era più bisogno di famiglie numerose) e le opportunità (aumento del lavoro femminile), generando un decremento dei tassi di natalità. Oggi si trovano nella Fase 3 l’Indonesia, l’Algeria, l’India ed il Messico.
  • Nel periodo post industriale (1970-oggi), cosiddetta Fase 4, il tasso di
    crescita naturale è tornato ad essere basso, come prima del 1750. Al contrario di quel periodo, a fronte dell’allungamento della età media (bassa mortalità) si registra una ancora più bassa natalità. Oggi si trovano nella Fase 4 il Canada, la Cina, gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e l’Italia (“Geografia Umana”, di Alberto Vanolo -Utet Università).
    Secondo l’Istat, il fenomeno della diminuzione delle nascite in Italia è legato principalmente all’uscita dall’età riproduttiva delle generazioni più numerose come quella del cosiddetto baby boom (nate da genitori che provenivano dalla guerra) e la loro sostituzione da parte di una generazione decisamente meno numerosa, che è nata dopo la metà degli anni Settanta (all’indomani, cioè dei noti movimenti di contestazione sociale e politica). Questo è il dato tecnico. Ma osserviamo il dato culturale.

Perché dagli anni Settanta si è cominciato a fare meno figli?
Certamente non sono più cause contingenti ad ostacolare la crescita demografica (come la mancanza di servizi, di igiene, di medicine o guerre, etc.), ma sono esclusivamente fattori psico sociali.
La famiglia regolamentata attraverso l’Istituto del Matrimonio ha cominciato ad incrinarsi, infatti, con la rivoluzione culturale del Sessantotto e del femminismo. Le grandi forze ideologiche di sinistra hanno messo in atto un sistematico processo di disgregazione dell’istituto familiare, attraverso la graduale decostruzione delle colonne portanti della famiglia.
Ripeto qui, per completezza narrativa, una breve panoramica dei presupposti giuridici e legislativi, ispirati alle ideologie sessantottine, che ci hanno portato ad oggi, con l’ultimo intervento sul Diritto di Famiglia compiuto con la attuale Riforma Cartabia.
Fino al primo dopoguerra era chiara ed indiscussa la centralità della famiglia, in quanto considerata società naturale, a sua volta rappresentante il nucleo centrale ed originario della società stessa.
L’esordio, come si sa, venne rappresentato dalla Legge n. 898/70, del 01.12.1970, sul Divorzio, addirittura confermata, nel 1974, da un referendum. È da questo momento che il matrimonio cessa di essere una istituzione sociale.
In nome del diritto inalienabile di autodeterminazione della donna e della sua libertà sessuale, venne approvata la Legge N.194/78, del 22.05.1978 sulla legalizzazione dell’Aborto. Due indiscutibili conquiste del movimento femminista, libertà dal matrimonio e libertà dalla procreazione… Metabolizzati adeguatamente, nel vecchio secolo, questi due capisaldi della rivoluzione familiare, facciamo un salto nel terzo millennio.
Il 14.08.2013, venne sancita la (apparentemente innocua, se non evolutiva) Legge n.119/13 contro il Femminicidio, in verità funzionale al progetto di rieducazione del popolo italiano, ispirato al pensiero femminista, di criminalizzazione dell’uomo.
Passiamo, poi, alla Legge n. 162/14, del 10.11.2014, sulla Degiurisdizionalizzazione dei processi di separazione e divorzio, che ha introdotto la possibilità di ricorrere, per separazioni e divorzi, a convenzioni di negoziazione assistita da avvocati, ovvero direttamente presso gli uffici pubblici.
A seguire, la Legge n. 55/15, del 06.05.2015, sul “Divorzio Breve”, che ha accorciato drasticamente (da tre anni, a sei mesi) il periodo che deve intercorrere obbligatoriamente tra il provvedimento di separazione e quello di divorzio.
E ancora, il 05 giugno 2016 è entrata in vigore la Legge n. 76/16 sulle Unioni Civili (cosiddetta Cirinnà), introducendo la unione civile omosessuale.
Per un soffio non è stato approvato in Senato il DDL Zan, ANTI OMOFOBIA/TRANSFOBIA, che intendeva punire, addirittura con la reclusione, atti e pensieri asseritamente discriminatori dell’identità di genere, per presunta omofobia o transfobia.
Tutto questo ha generato, come abbiamo detto sopra, un aumento esponenziale di domande di separazione e di divorzio, l’abbandono sistematico dell’accesso al matrimonio, la valorizzazione delle unioni omosessuali infeconde ed il conseguente crollo delle nascite.
Infine, il colpo finale alla famiglia lo ha inferto Marta Cartabia. Lo schema del decreto che attua la Legge n. 206/21, del 26 novembre 2021, (Riforma Cartabia del Processo) è semplicemente questo: Rendere più efficiente il processo civile. Il cruccio principale è stato quello di ridurre il numero dei procedimenti pendenti, di garantire economia processuale, di risparmiare tempo ed energie giudiziarie. Insomma, la macchina della Giustizia, totalmente ingolfata da un carico non più gestibile di contenzioso, di cui quello familiare riveste la parte più importante, non funziona più. In particolare, in materia di separazioni e divorzi, la domanda supera la capacità del sistema giudiziario di smaltirla, talchè c’è bisogno di sfoltire, di eliminare, di delegare. Oggi dunque la nuova trattazione della crisi matrimoniale consentirà di accedere a Separazione e Divorzio con un unico atto. La legge n.206/2021 prevede la possibilità di chiedere separazione e divorzio contemporaneamente.
Eppure il polveroso e antiquato art. 29 della Costituzione Italiana, ancora recita “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.

Quello che si registra da questo breve excursus è un’aggressione frontale alla famiglia, sia dal punto di vista culturale, che politico, che giuridico.
Abbiamo visto come le rivoluzioni sessuali e sociali della fine del secolo scorso hanno raso al suolo quelle costruzioni solide e antiche che avevano sorretto intere generazioni e secoli di storia.
I ruderi che ne sono rimasti hanno lasciato un vuoto angosciante.
I figli sradicati, la famiglia smembrata, le abitudini stravolte, la casa vuota.
Il dolore per la mancanza di tutto ciò, secondo me, si sta facendo sentire.
È evidente che l’uomo, come essere umano, sia ancestralmente portato alla procreazione, al desiderio dell’accudimento di un cucciolo e dell’allevamento di un figlio, come il prolungamento di sé.
E’ un istinto atavico, ancestrale, insopprimibile.
A mio avviso, questo richiamo primordiale alla genitorialità oggi lo stanno preservando gli uomini, in un momento storico, in cui le donne si sono perse. Io credo che, principalmente, oggi, la famiglia manchi sopratutto agli uomini. Non è escluso che il fenomeno della omosessualità, aumentato in modo così esponenziale, non a caso in corrispondenza con la crisi della famiglia tradizionale, sia la conseguenza proprio di quella crisi. Quasi che fosse l’esito della ricerca di una alternativa. Un altro tipo di famiglia. Se c’è amore, c’è famiglia, qualsiasi forma abbia. Appare evidente il bisogno di amore, il bisogno di protezione, il bisogno di stare insieme. Il bisogno di famiglia. Secondo questa lettura, allora, non è un paradosso che a fronte del fallimento dell’istituto del Matrimonio, si sia rivendicato il diritto alle Unioni Civili Omosessuali. In questa ottica si spiega, ancora, come, a fronte di donne che non fanno più figli e che ricorrono all’aborto volontario con grande indifferenza, ci siano coppie gay disposte a tutto pur di avere un figlio.
La famiglia, quella fondata sul matrimonio, rimane il desiderio di ogni
persona, secondo me.

Occorre, pertanto, ripartire dai valori. Dal valore della famiglia. Occorre rendere la famiglia e il matrimonio un fatto rivoluzionario, del tutto nuovo. Quasi una scoperta per i giovani. Un nuovo mito. Un motivo di ottimismo. Oggi è il momento di rinnovare il significato e la forza originari dell’istituto del matrimonio, da privilegiare, quale luogo insostituibile di crescita umana e futuro della società.
Rinnovo, allora, il mio monito a tutte noi donne, grandi assenti (se non complici inconsapevoli) di queste vicende.
Lasciamo perdere le quote rosa, cosa ci importa di avere un reato a noi dedicato (femminicidio, invece che omicidio), desistiamo dal forzare il lessico al femminile (peraltro cacofonico, come sindaca, assessora, ministra) e riprendiamoci il nostro insostituibile compito naturale, il nostro ruolo antico, di madri e di mogli, riappropriamoci della nostra femminilità, che non ha bisogno di entrare in competizione con niente e con nessuno.
Mi è piaciuto immaginare di poter fondare, noi della Casa della Civiltà, un nuovo movimento, in netta dissonanza con il femminismo che ha provocato tanti guai, come si è visto. Ho fantasticato di poter chiamare questo nuovo movimento “Femminilismo”, volto a valorizzare compiutamente il ruolo, l’immagine, la figura e la femminilità della donna, nella nascente nuova società. Qui la donna, finalmente liberata dalle scorie di una retorica autodistruttiva, potrà riappropriarsi del proprio compito di generatrice di vita, che, a ben pensarci, ha in sé qualcosa di sacro e quasi di divino.
Noi donne possiamo essere le protagoniste assolute di una nuova rivoluzione. Possiamo diventare le artefici della ricostruzione della famiglia naturale, fondata sulla nuova alleanza fra l’uomo e la donna.
In un vecchio mondo che muore, solo noi donne potremo tornare a costruire il nuovo mondo che nasce.

Stefania Celenza

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