DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Bauman, la modernità e l’esperienza poetica di Benedetti”

Zygmunt Bauman definisce liquida la realtà moderna. Secondo il filosofo polacco, gli uomini sarebbero accomunati, oggi, da una condizione di “esseri in divenire”, in continuo movimento, proiettati al raggiungimento di una stasi che non arriva mai. La condizione dell’incompiutezza e della perpetua transitorietà viene interpretata come il segno di un tempo in cui i vecchi modi di essere sono stati superati e risultano inattuabili, ma non si è pervenuti alla definizione di altre modalità strutturate e istituzionali attraverso cui inquadrare una nuova antropologia.

La visione attuale del mondo dimostra la volontà di abnegare il passato e si proietta in un’ottica di apertura globale sovranazionale, che coinvolge tutte le sfere umane dell’esistenza, dalla società all’economia, alla giurisdizione, alla politica. Questa visione, tuttavia, si scontra con istanze di rivendicazione identitaria di tipo nazionale e locale.

La percezione del cambiamento ha messo in crisi l’idea di una purezza identitaria originaria dell’uomo. Si è perciò rivalutato, invece, il potenziale antropologico che corrisponde allo spirito di adattamento e alla capacità di modificarsi, di modellare se stesso.

Il che ha permesso all’uomo di legittimare il suo volersi adeguare continuamente alle sfide della modernità nella prospettiva di inseguire le novità e le innovazioni.

D’altro canto, per converso, sta maturando un bisogno di riacquisire certezze che spinge verso la direzione di una riscoperta dei valori identitari, ristabilendo il rispetto di innegabili diritti sociali e civili.

Il futuro appare incerto e, perciò, gli individui non intendono lasciarsi sfuggire alcuna opportunità di sperimentare, di provare soluzioni anche molto diverse tra loro, persino contraddittorie, seguendo stimoli ad agire eterogenei e votati al cambiamento.

Gli orientamenti della poesia contemporanea riflettono questo bisogno di fluidità. Si evidenzia un irrimediabile indebolimento delle categorie tradizionali attinenti al canone e alla formalizzazione di generi e di codici. E si verifica una commistione che rende difficile se non impossibile operare tentativi di una nuova ricodificazione letteraria.

Negli anni Settanta e negli anni Ottanta del XX secolo, per intenderci, c’è una predominante tendenza progressista, finanche negli eccessi di una deriva anti-ideologica, in cui l’atteggiamento decostruttivo basta a se stesso; d’altro canto, però, si evidenziano dei tentativi di restaurazione formale e contenutistica per i quali si ripresentano soluzioni poetiche apparentemente più tradizionali.

Negli anni Novanta, invece, si registrano esperienze letterarie in cui la poesia pare tentare di riacquisire la sua funzione istituzionale, riedificando le sue potenzialità sul riconoscimento di una sua origine lirica e soggettiva. I componimenti, però, non si presentano frutto di un’ispirazione estemporanea. Piuttosto, l’atto poetico si configura come un complesso processo che si incentra sulla rielaborazione dell’esperienza individuale attraverso la scrittura.

L’operazione messa in pratica da alcuni poeti si rivela frutto di una ponderata ricerca stilistica, a seguito di un’operazione ragionata e come atto di scrittura pensato. Quest’operazione di rielaborazione determina, paradossalmente, un allargamento della distanza tra queste nuove esperienze e i generi e le poetiche tradizionali.

Si afferma il carattere sperimentale e innovativo di questi tentativi letterari, nei quali pare potersi evidenziare l’intenzione di prescindere da soluzioni formali ritenute sovrastrutturali. L’intento è quello di non alterare la genuinità dei contenuti e il valore innovativo dell’opera.

Interessante, in tal senso, la testimonianza di Mario Benedetti, poeta attivo tra la fine del Novecento e gli inizi del nuovo Millennio. La sua prima importante raccolta poetica, intitolata Umana gloria, viene pubblicata nel 2004 e comprende componimenti scritti precedentemente, selezionati e riproposti sotto forma di silloge.

L’esperienza letteraria di Benedetti evidenzia la presa di coscienza, da parte del poeta, dell’impossibilità di realizzare una poesia capace di un’azione disvelatrice dei fondamenti esistenziali dell’umanità.

Si evidenzia, cioè, una rinuncia all’atto comunicativo che mette in relazione l’autore con un pubblico di lettori nella reciproca approvazione di una medesima sostanza valoriale.

In un commento proposto da Benedetti a una sua poesia della raccolta Umana gloria, il poeta si esprime dicendo che il componimento Che cos’è la solitudine… contiene una parola chiave per comprenderne il significato, che è “ingenuamente”. Il poeta sostiene che questa parola si associa al personaggio «che parla in prima persona e chiede scusa». Egli cioè si scusa del fatto stesso di essersi posto al centro di un luogo letterario di cui si rende protagonista, allo scopo di osservarsi e capirsi meglio.

L’oggettivazione del sé in un contesto letterario consente all’autore di fare una più efficace esperienza attraverso l’osservazione, vedendosi e sentendosi di più. La rappresentazione letteraria o artistica dà spessore a chi scrive. «Di far leva su questo sentimento, dichiarato ingenuo, si chiede scusa ai lettori».

Riconoscendo la crisi della funzione tradizionale della letteratura e della poesia, l’autore trova comunque un modo di rendersi protagonista di un’opera letteraria nell’ambito della quale guardare alla propria esperienza, contemplandola. Di questo procedimento il poeta si scusa. Egli si chiede se questo procedimento abbia un valore comunicativo, cioè se lo “spessore” che acquista chi scrive sia oggi plausibile. E perciò chiede scusa ai lettori.

Guardare è l’azione attraverso cui si dà esistenza alle cose, che acquistano rilievo in quanto esperienza. Esse sono elementi di un tempo passato che l’io contempla, acquisendone conoscenza. Riattraversando questa esperienza il soggetto perde un po’ di quella individualità da cui comunque i contenuti della poesia sono mossi.

Il poeta riesce a collocare se stesso in una dimensione che gli consente di percepire i rapporti tra le cose della realtà, che esistono proprio perché vengono guardate come oggetti dell’esperienza.

Si tratta di un atto attraverso cui si riconosce insufficiente la scrittura letteraria se basata soltanto su un’individualità autoreferenziale e votata a un puro espressivismo soggettivo, così come si afferma l’impossibilità di condividere con gli altri una sostanza umanistica di valori su cui rifondare una comunità.

La crisi della funzione tradizionale della poesia appare riconosciuta in maniera assodata. Il Novecento si chiude sottolineando l’inattualità di ogni valore umanistico. Il nuovo millennio inizia, nell’esperienza di Benedetti, con un intento di apertura, che però viene definito “ingenuo” e che, comunque, non smentisce l’innegabile soggettività individualistica dello slancio poetico. Il percorso da seguire per una rifondazione comunitaria risulta “in fieri”.

La modernità è un laboratorio continuo nel quale continuiamo a trovarci anche noi, proiettati verso un futuro nel quale far prevalere le nostre istanze di rinascita, per una conoscenza del mondo che fondi la ricerca della verità a partire dall’interiorità.

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