Uscendo dal sito di Medinet Habu riflettevo sull’impressione che si riceve quando per la prima volta nella vita ci si trova davanti ai templi egizi. La meraviglia è suscitata certo dalla bellezza, ma non solo, perché la sorpresa deriva pure dalla diversità, dall’unicità di forme e colori che, visti in foto, non possono concorrere col forte impatto che provocano su chi ha occasione di ammirarli dal vivo.
L’ambiente che li circonda, il deserto, il vuoto apparente della natura, che sempre evoca forti sensazioni per la sua aura magica, crea una cornice quanto mai contrastante con lo spazio riempito dall’uomo, e tanto più capace per questo di esaltarne la specificità. Se ne esce frastornati.
Anche la solidità delle costruzioni che hanno superato non solo gli elementi atmosferici nel corso dei millenni, ma pure le offese, i vandalismi di genti mosse da credi e ideologie nemiche della storia, stupisce. Eppure a volte tanto fanatismo si è risolto paradossalmente in un bene.
Ho accennato allo sfregio delle statue osiriache di Ramsete III nel cortile di Medinet Habu da parte dei cristiani iconoclasti. Tuttavia nello stesso cortile che le ospita, i fregi, le pitture e i relativi colori risultano salvati proprio grazie all’opera di copertura dei copti che trasformarono l’ambiente in una chiesa: rivestendo di fango gli ornamenti per occultarli alla vista, ne hanno consentito senza volerlo un’ottima conservazione.
Noi possiamo ammirarli oggi grazie al costante minuzioso lavoro di ripulitura degli archeologi, ma ci si chiede che impressione potessero fare solo pochi secoli fa, quando ancora non erano iniziate le campagne di scavo e non era sorto un interesse specifico volto a riportare alla luce le antichità.
Gli abitanti stessi erano i primi a non curarsi del ricco patrimonio artistico che avevano sotto gli occhi. Gli arabi che conquistarono l’Egitto avevano sempre guardato con distacco alle testimonianze della civiltà e dell’arte che li aveva preceduti: mancando di senso storico, il loro precipuo interesse, dettato dall’osservanza della fede maomettana, era l’edificazione di moschee, che curavano e abbellivano con uno stile che non permetteva l’arte figurativa.
La vera “scoperta” dell’Egitto la dobbiamo invece agli stranieri, e in epoca tarda, perché gli europei fino all’età del Rinascimento non avevano mostrato particolare curiosità per la civiltà del Nilo: chi si avventurava in quelle terre lo faceva solo di passaggio, le attraversava solo con lo scopo di raggiungere la Terra Santa. Solo pochissimi di loro, i più audaci, si spingevano al punto da trafugare magari qualche mummia, ma al ritorno in patria non erano prodighi di racconti.
Chi determinò una svolta decisiva nello studio delle antichità egizie fu Napoleone Bonaparte. Si può dire che tutto partì da lui. Il generale, uscito vittorioso dalla campagna d’Italia, si era prefisso come ulteriore obiettivo la conquista dell’Oriente per colpire l’Inghilterra. Naturalmente, avendo in mente l’esempio del suo idolo, Alessandro Magno, volle fare le cose alla grande. Pertanto, allestita una flotta composta da 328 navi e 38.000 uomini, salpò da Tolone alla volta dell’Egitto. Qui, nella terra da sempre ritenuta la porta dell’Oriente, i francesi sbarcarono il 2 luglio del 1798.
Ma non erano tutti militari i componenti della spedizione: Napoleone aveva voluto al seguito addirittura 175 scienziati. Solo questo gli permise di ottenere un bel successo, perché, se militarmente l’impresa risultò un fiasco, dal punto di vista culturale segnò una svolta decisiva nello studio dell’archeologia. Facevano parte della spedizione astronomi, geometri, chimici, pittori, che potevano avvalersi perfino di una ricca biblioteca che conteneva tutto quanto si sapeva allora sulla terra del Nilo.
Ma fu soprattutto grazie all’impegno e alla passione di uno di essi che le conoscenze si accrebbero a dismisura. Fu merito di un disegnatore, già affermato nel suo campo, e che si era distinto, guarda caso, in opere pornografiche. Era stata Giuseppina a raccomandare a Napoleone Dominique Vivant Denon. Fu una scelta felice: l’artista, aggregato all’esercito, si appassionò vieppiù ai monumenti in cui i francesi man mano si imbattevano nella marcia di conquista, e si impegnò con tutte le sue forze a salvarli con la matita, raffigurandoli con estrema precisione e minuzia di particolari. A quel tempo, non essendoci ancora la macchina fotografica, per riprodurre le opere d’arte non c’era altro mezzo che l’illustrazione e avere a disposizione un disegnatore attento e scrupoloso come lui era una vera fortuna. Oggi certi suoi disegni sono anche molto importanti per la ricostruzione di monumenti in seguito ulteriormente danneggiati e per la testimonianza di quelli scomparsi.
Vivant Denon percorse al seguito dell’esercito grandi distanze a cavallo di un ronzino, toccando importanti siti: Saqqara, Dendera, Assuan, Elefantina. Il vastissimo repertorio che presentò al suo ritorno in Francia attrasse così tanto il pubblico, e non solo degli studiosi, che si diffuse ovunque un interesse addirittura maniacale per le cose d’Egitto.
La sua opera monumentale, la “Description de l’Egypte”, che si può ben dire faraonica, dette un forte impulso allo studio della civiltà del Nilo. Il titolo ne chiariva bene il contenuto.
Naturalmente Napoleone non poteva ritenersi soddisfatto solo dai disegni dei reperti, perché la tentazione di asportare stele, statue, suppellettili, per arricchire le sue collezioni d’arte, era troppo forte. In attesa di tornare in patria fondò al Cairo l’Istituto Egizio dove erano spediti i pezzi che via via venivano raccolti; da notare che fra questi si trovava la celebre stele di Rosetta che sarebbe risultata chiave essenziale per l’interpretazione dei geroglifici.
Ma il Generale aveva fatto i conti senza l’oste: quando Alessandria fu occupata dal nemico, e il condottiero dovette affidare la sua sorte a un fortunoso viaggio di ritorno in patria, tutti i suoi piani andarono in fumo, perché alla sconfitta militare si aggiunse la cessione del ricco bottino agli inglesi: a costoro non parve vero di appropriarsene per accrescere le collezioni del British Museum.
Insomma il Generale restò con un palmo di naso. Ma per fortuna, grazie all’opera formidabile di Vivant Denon, che aveva fatto in tempo a copiare minuziosamente tutti i reperti, gli studiosi francesi poterono avere a disposizione materiale in abbondanza da analizzare.
E con questo ho spiegato anche il titolo pomposo del mio reportage.
Alabastro
«Ma Adnat!», gridava Yasser chiamandoci a raccolta. La mattinata non finiva lì. Nelle vicinanze del tempio abbiamo sostato in un villaggio di artigiani che lavoravano l’alabastro, attività che risaliva naturalmente all’epoca dei faraoni perché le cave di questa pietra gessosa che si ricava nella zona di Luxor erano sfruttate fin d’allora.
E’ stato curioso visitarlo. La gente locale indossava lunghe tonache, abbigliamento ereditato dagli arabi, e consueto ancor oggi nelle campagne della valle del Nilo, per cui pareva di entrare in un lontano passato o almeno in un set cinematografico.
Ma non era proprio così: il mercato riservato ai turisti si avvaleva di un moderno sistema di marketing. Un imbonitore accoglieva all’ingresso i visitatori, li radunava intorno a sé e con gesti plateali, voce stentorea e in buon italiano, accompagnato da una sinfonia di sottofondo emessa da tamburi e altri strumenti tipici, reclamizzava la merce. Spiegava i metodi della lavorazione indicando man mano gli specifici interventi degli artigiani intenti all’opera, che sedevano alle sue spalle. I turisti osservavano curiosi e divertiti dal brio di quell’incantatore che pareva uscito da una novella delle Mille una Notte, ah, al tempo del califfo Harun al-Raschid!…
Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto, Capitolo 6 (Continua)