ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – Nel laboratorio delle essenze – (capitolo 12) – vedi galleria fotografica

Sto andando a rilento. Mi accorgo che il racconto è intessuto di digressioni, e che ognuna di esse meriterebbe un ulteriore approfondimento, insomma è come trovarsi in mano una sorta di scatole cinesi, ma non c’è niente da fare: in un viaggio come questo, quando si trovano spunti interessanti, si è spinti dalla curiosità, salvo trattenersi quando ci si accorge che si sta andando troppo lontano.

Allora, Adnat! Vado avanti al consueto richiamo di Yasser.

La seconda sala ipostila di Edfu, più piccola della precedente, era più oscura perché illuminata solo dall’alto da piccoli lucernari, dei fori quadrati da cui piovevano i raggi del sole, illuminando le pareti e le colonne con giochi di luce che variavano col trascorrere delle ore. Era il sistema voluto dai sacerdoti e seguito dagli architetti, ripetuto in tutti i templi egizi.

L’illuminazione era studiata appositamente per creare un’atmosfera sacra e sempre più misteriosa, man mano che ci si inoltrava nella zona del santuario inaccessibile al pubblico dei fedeli; parallelamente all’affermarsi dell’oscurità, gli ambienti si facevano più angusti, accogliendo ai lati stanze ancora più piccole destinate a vari usi e servizi. Tutto doveva preparare al cuore del tempio, il sacrario, un vano in genere di modeste dimensioni, dove si conservava la statua del dio.

A sinistra della seconda sala ipostila si apriva un ambiente interessante, il laboratorio delle essenze e dei profumi. Era prerogativa dei sacerdoti la preparazione di creme unguenti aromi, prodotti utilizzati sia per bellezza che per curare le malattie. Le figure delle pareti fornivano esempi di lavorazione, mentre sconfinate distese di geroglifici spiegavano le ricette da seguire per produrli.

Sul soffitto dominavano le effigi del dio Horus, raffigurato dal globo solare affiancato dagli urei, da cui si dipartivano le ali spiegate del falco. Le ali avevano grande importanza simbolica in quanto rappresentavano il tramite fra gli uomini e la natura, fra la terra e il cielo, sede degli dei. Significavano la ricerca di un’armonia che mantenesse l’ordine delle cose, quello che gli Egizi chiamavano Maat e che era in cima agli obiettivi del governo faraonico.

Le ali simboleggiavano anche l’unione dei due Regni, l’Alto e il Basso Egitto, riuniti appunto dal dio sole. Scolpite nelle tombe e nei santuari, avevano inoltre la funzione di proteggerli dai profanatori, e si ritrovavano ovunque: sulle porte, sui soffitti, sulle stele, nelle piramidi.

La fitta serie di scritte in geroglifico che foderavano gran parte delle pareti di ogni vano, dimostrava bene un commento che ho trovato nel libro di Ceram: “Se qualcuno volesse trascrivere le iscrizioni del tempio di Edfu, lavorando dalla mattina alla sera, non finirebbe in venti anni!”. Certo che al profano quei segni sembrano solo ornamenti, ricami decorativi, ma valutando che si tratta di una scrittura con preciso significato, quindi di documenti storici, la vista di quelle pareti stordisce.

I testi scolpiti ad Edfu sono stati di grande aiuto agli studiosi che, leggendoli e interpretandoli, hanno potuto scavare più a fondo nel pensiero e nella civiltà degli Egizi. La loro conservazione ha costituito una vera e propria manna, che ha permesso di ricavare importanti informazioni non solo riguardanti l’epoca della costruzione del tempio, ma anche per allargare le conoscenze sulla mitologia e la religione, nonché sugli usi e costumi della Terra dei faraoni.

I profumi
Dalle ricette che costellavano fittamente le pareti del “laboratorio” si poteva capire la funzione che essenze e aromi avevano in questa cultura. Sono stati i popoli del Nilo e della Mesopotamia ad avvalersi per primi di cosmetici e profumi fin dal 3.000 a.C.

Gli Egizi veneravano anche un dio apposito, Nefertum, il cui simbolo era un fiore di loto. Di lui si raccontava che aveva portato in dono all’anziano e sofferente Ra, dio del sole, un bouquet di fiori di loto per alleviargli il dolore.

Il popolo del Nilo amava molto gli aromi, che considerava portatori di salute e benessere. In origine probabilmente la loro funzione fu legata al culto: l’uso delle resine aromatiche serviva a mitigare l’afrore delle offerte sacrificali. Ma soprattutto si usava l’incenso nei templi con la convinzione che fosse gradito agli dei.

Ho già accennato all’impresa memorabile voluta dalla regina Hatshepsut della XVIII dinastia, quella sepolta a Deir el-Bahari, che aveva inviato una spedizione a Punt in Somalia con lo scopo di reperirvi alberi di incenso da piantare in Egitto, evitando così di dipendere dai rifornimenti non soddisfacenti che arrivavano dal Sudan. Si trattò del primo trapianto di flora straniera conosciuto ed ebbe successo. Fra i dipinti del suo tempio si notano i soldati in marcia che tornano in patria recando trionfalmente le sospirate piante.

Ma i profumi non erano impiegati soltanto a scopo religioso, perché quella civiltà raffinata, cultrice della bellezza, ne prevedeva l’uso anche nella vita di tutti i giorni. Le essenze, che venivano conservate in bottiglie di alabastro, dapprima usate da una élite, divennero col tempo accessibili ai più e usate comunemente nell’igiene quotidiana. Ne nacque un’industria, la cui fama si diffuse in tutta l’area del mondo antico. Essa si avvaleva di varie spezie: oltre alla mirra e all’incenso anche di cardamomo, cannella, cassia e varie altre specie.

Di questa pratica abbiamo testimonianza dai papiri e dalle iscrizioni, ma soprattutto dai dipinti che illustrano momenti della vita quotidiana. Sono scene di donne intente al maquillage, o di banchetti in cui i servi offrono ai convitati fiori di loto perché possano aspirarne l’aroma.

I profumi accompagnavano perfino il morto: sono state ritrovate sostanze aromatiche accanto alla mummia perché ne potesse aspirare l’aroma nell’aldilà. Nell’Ottocento certi archeologi, scoperchiando dei sarcofaghi, poterono sentire ancora le fragranze che vi erano state deposte.

Nelle scene di banchetti, si osservano spesso commensali che recano in testa un cono bianco piuttosto vistoso, ma non si hanno testimonianze scritte sulla sua consistenza o funzione. Gli studiosi, pur non essendo stati trovati reperti che confermassero il suo uso, hanno ipotizzato si trattasse di “coni di profumo”, ossia sostanze grasse aromatiche che sciogliendosi col calore del corpo scendevano a profumare la persona.

A me è parsa un’ipotesi strampalata. Non credo sia molto attendibile. Un articolo del 2020, sul sito internet “Mediterraneo Antico”, annuncia il ritrovamento nelle sepolture di Akhetaton, l’odierna Tell el-Amarna, di oggetti che appaiono “coni di profumo”, ridimensionando la consueta interpretazione.

In base a questa recente scoperta gli archeologi odierni hanno riscontrato che non si tratta di una massa solida, ma di un contenitore, modellato con resti di tessuto con cotone o lino al suo interno. Un guscio di spessore irregolare, realizzato con una cera animale o vegetale e non quindi con grasso, o incenso, come ipotizzato, e per questo non ci sarebbe stato nessun trasferimento di sostanze dal cono ai capelli di chi lo indossava. Magari la cera poteva pure essere impregnata di profumo. Chi lo sa, l’archeologia è sempre in fieri. Si vedrà.

Capitolo 12 – segue

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