ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – Belzoni ad Abu Simbel – (capitolo 18) – vedi galleria fotografica

Dalla vasta spianata dove la folla dei turisti fermentava, emergevano le rupi dei templi salvati. Quante vicissitudini avevano attraversato: l’insabbiamento, il disseppellimento e addirittura un “viaggio”: veniva da chiedersi se quella dove erano attualmente fosse davvero la loro definitiva sistemazione.

Quando Ramsete II decise di costruire ad Abu Simbel due santuari, uno dedicato a sé e l’altro alla sposa Nefertari, unico esempio di regina divinizzata nella storia egizia, scelse un luogo molto distante da Tebe, la lontana Nubia, proprio in omaggio all’amata che da lì proveniva. Dunque i monumenti, che il faraone volle ben imponenti, nacquero come testimonianza d’amore. Non furono opera di costruzione, ma di scavo, in quanto furono ricavati dalla roccia allargando due grotte sacre dedicate a divinità locali.

Ramsete II era il faraone la cui mummia, come ho già ricordato, aveva “viaggiato” in vari siti, dato che la sua profanazione aveva indotto i sacerdoti a restaurarla e preservarla in luoghi più sicuri. Era stata spostata in diverse tombe fino ad arrivare all’ultimo riparo: il celebre “nascondiglio” di Deir el-Bahari, scavato vicino al tempio della regina Hatshepsut, che ho descritto in precedenza. Il destino del re pare abbia influito sulla sua opera che ha vissuto analoghe avventure.

I templi di Abu Simbel, che risalgono al XVIII secolo a.C., avevano subito il consueto destino dei monumenti eretti nel deserto: le sabbie si erano accumulate nel corso del tempo fino ad ostruire gli ingressi e a ricoprire le statue, lasciandone emergere appena la parte superiore. L’esploratore e orientalista Johann Burckhardt, cui si deve anche la scoperta di Petra in Giordania, fu il primo degli europei a vederli, e quando informò del rinvenimento Belzoni, suscitò la sua curiosità al punto da spingerlo ad effettuare un sopralluogo per tentare di ripulirli dalle sabbie.

Il Padovano aveva senz’altro fiutato un buon affare. Ricordiamo che all’epoca l’interesse per le antichità egizie, provocato dai successi (in senso culturale) della spedizione napoleonica, si era diffuso largamente in Europa, spingendo collezionisti d’arte, direttori di musei, ma anche privati, a far di tutto pur di procurarsi preziosi reperti.

L’Egitto allora pullulava di gente di ogni risma, attirata dalle ricche opportunità che l’archeologia locale offriva: diplomatici, avventurieri, commercianti, in tanti si davano da fare per reperire tesori. La lotta sorda e determinata che si svolgeva fra il rappresentante dell’Inghilterra, Henri Salt, e il console di Francia, il piemontese Bernardino Drovetti, per accaparrarseli, polarizzava le ricerche: entrambi non esitavano ad avvalersi di personaggi senza scrupoli pur di ottenere pezzi interessanti da spedire rispettivamente al British e al Louvre.

Bisogna sottolineare che Belzoni non mirava solo ad ottenere proficui guadagni dalla sua attività, perché era anche sinceramente attratto dai reperti storici. Si può dire che in lui il senso del profitto si intrecciasse indissolubilmente con l’amore per l’arte e lo spirito d’avventura. E di quest’ultimo ne aveva certo bisogno perché, avendo un rapporto privilegiato con Salt, quindi con gli inglesi, la sua attività di ricercatore fu ostacolata in tutti i modi dal console francese Drovetti, ufficialmente autorizzato da Mehemet Alì pascià ad operare ricerche e scavi. Durante le spedizioni effettuate nella valle del Nilo tra il 1816 e il 1818, gli agenti del console gli dettero pertanto filo da torcere.

Le ricerche condotte da Belzoni permisero di ampliare le conoscenze sulla storia egizia gettando così le basi della moderna egittologia.Dobbiamo a lui infatti una serie di importanti scoperte che dettero l’avvio all’esplorazione di un’area determinante per gli studiosi: la Valle dei Re. Fu lui a scoprire nel 1817 la tomba di Seti I, chiamata da allora “Tomba di Belzoni”; a trovare l’apertura della piramide di Chefren; a condurre i primi scavi a Karnak.

Ma queste perlustrazioni si svolgevano fra ostacoli e boicottaggi di ogni sorta: fra gli agenti di Drovetti, che complottavano a suo danno attentando addirittura alla sua vita, e gli indigeni diffidenti e neghittosi, dovette muoversi con prudenza e furbizia. Pertanto l’impresa di risalire il Nilo fino alla seconda cateratta per trovare i templi di Abu Simbel si presentava come particolarmente ostica, una vera e propria sfida. Quando giunse in zona, si mise alla ricerca chiedendo informazioni ai locali finché individuò il sito nascosto in gran parte dalla sabbia. Rimuoverla era molto difficoltoso perché una volta spostata, il vento la faceva presto tornare. Ma Belzoni, organizzata una squadra di scavatori, risolse anche questo problema.

Una volta scoperto l’ingresso, poté penetrare nel sotterraneo. Era l’alba del primo agosto 1817. Immaginiamo l’emozione di quegli uomini che entrarono per primi, speranzosi anche di trovare tesori nascosti. Il Nostro ebbe difficoltà ad entrare, data la sua stazza, ma quando riuscì a varcare lo stretto passaggio poté ammirare un ambiente meravigliosamente ornato di statue e pitture. Fu abbagliato dalla perfezione dei dipinti e dalla incredibile conservazione delle statue colossali. Non poté capire però la particolare disposizione del monumento che era orientato in modo che i raggi del sole, attraversando le due sale ipostile, entrassero a illuminare le statue del sacrario, che contiene le effigi del faraone e di altri tre dei, Amon-ra, Ptah e Harmakhi. E questo avveniva esattamente all’alba di due giorni dell’anno: il 22 febbraio e il 22 ottobre, date che corrispondevano rispettivamente all’inizio del raccolto e alla fine della piena del Nilo.

Certo, Belzoni rimase deluso dalla mancanza di un tesoro cui aveva agognato, ma nel contempo fu soddisfatto per il successo dell’impresa che gli avrebbe procurato gloria e fama. Pertanto non esitò a lasciare la firma anche nel tempio di Abu Simbel, scolpendo su un altare il suo nome con la data dell’ingresso: “AUGUST I 1817”.

Sicuramente i metodi di Belzoni nel portare alla luce i reperti antichi non si possono considerare propriamente ortodossi. Per violare gli ingressi delle tombe e dei monumenti non esitava, davanti a un ostacolo particolarmente caparbio, a farlo saltare con l’ariete o con esplosivi: roba da far rizzare i capelli agli studiosi odierni, che raccomandano di procedere millimetro per millimetro, perché solo un esame minuzioso, condotto strato per strato, permette di avanzare sulla via della conoscenza.

Insomma così operava il Nostro che, scavando qua e là, non badava tanto alla ricostruzione storica (ma ricordiamo a sua discolpa che i geroglifici ancora non erano stati decifrati), quanto al valore degli oggetti destinati al collezionismo.

Questo non significa tuttavia che non abbia avuto anche notevoli intuizioni che aprirono la strada ai futuri archeologi ed è innegabile che l’egittologia abbia compiuto grazie a lui i primi determinanti passi. Ricordiamo anche l’elogio che ricevette da Carter, lo scopritore della tomba di Tutankamon. Addirittura la fama di Belzoni, che lo fece apparire ai contemporanei più un avventuriero che un archeologo, pare abbia ispirato il personaggio di Indiana Jones, il celebre protagonista dei film di Steven Spielberg.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – Capitolo 18 – “Belzoni ad Abu Simbel” (continua)

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