ISABELLA MECARELLI, “VIAGGIO IN EGITTO” – La Luxor araba – (capitolo 36) – vedi galleria fotografica

Entrare in quel quartiere di Luxor che ben si distingueva dal suq turistico per la sua apparenza decisamente “ruspante”, era come immergersi in una lezione di geografia dal vivo: avevo davanti usi e costumi che invece di essere appresi attraverso le letture, si materializzavano, mostrando risvolti trascurati da anodini trattati, quali i gesti, i movimenti, insomma l’atmosfera che permeava la vita degli abitanti.

La via principale filava dritta, fiancheggiata da palazzine che, nonostante l’aria dimessa e i muri piuttosto maltenuti, perlomeno erano “finite”, ossia non paragonabili ai brandelli di case dei villaggi che avevo attraversato o osservato durante la navigazione.

I ritmi del rione apparivano tranquilli, direi proprio sereni; le operazioni si svolgevano senza alcuna frenesia. L’indole orientale si evidenziava nelle lunghe pazienti code dei clienti, soprattutto donne, che stazionavano presso i negozi di alimentari.

Grappoli di persone sostavano davanti alle macellerie che esponevano i pezzi di carne all’aria, appesi agli uncini, conditi con la polvere e i fumi degli scappamenti dei mezzi che transitavano per strada. Erano veicoli disparati: automobili poche, soprattutto moto e motorini, biciclette cariche di merci, furgoncini commerciali e naturalmente non potevano mancare le carrozzelle a vivacizzare il traffico.

Le donne, quasi tutte paludate di manti neri, lasciavano almeno scoperto il volto. Diversi uomini qui vestivano all’occidentale, in camicia e jeans, soprattutto quelli a bordo delle moto, ma curiosamente certi motociclisti non disdegnavano le tonache classiche, che erano l’abbigliamento consueto della maggioranza.

Mucchi di vestiti pendevano in mostra fuori dei negozi. Nelle vie traverse, sostavano carretti di venditori ambulanti che offrivano frutta e verdura. Ma le botteghe più curiose, nel senso della loro stranezza rispetto ai nostri canoni occidentali, sembravano le macellerie. Mi sono piazzata davanti al bancone di un macellaio a osservare con attenzione. Il padrone, aiutato dai garzoni, operava all’aperto su un bancone, un rudimentale tavolo di ferro, dove veniva tagliata espressamente la carne ordinata dai clienti. Pareva la scena di un teatro dove i componenti della troupe, è il caso di dire, lavoravano allegramente di mannaia sul banco insanguinato, pesando poi la carne su una bilancia rudimentale. Fra i pezzi non ben identificabili che giacevano sul tavolo spiccavano mucchi di grasso e di interiora, mentre la cosa più appariscente era una lunga coda di bufalo penzolante dal bordo del tavolaccio, esibita per far capire che si stava “trattando” appunto quella bestia.

Sorrideva il beccaio ai nostri scatti fotografici, lavorava di lena, mentre affondava il coltello affilato nei pezzi poggiati sul ceppo di legno, consapevole dello spettacolo che offriva ai turisti. Fra un colpo di mannaia e l’altro gli scarti venivano lanciati a terra dove diventavano ghiotti bocconi per i gatti che accorrevano a frotte attirati da quel bendidio.

La gente era cordiale, certo solo gli uomini, le donne mantenevano un’assoluta riservatezza. Ma i commercianti sorridevano al nostro passaggio e senza insistere per farci entrare nei negozi, chiedevano di farsi fotografare insieme a noi. Ho scambiato qualche battuta con alcuni di loro, che rivolgendosi con atteggiamento simpatico, chiedevano da dove venivamo e altre cose consuete.

Quel tuffo in un ambiente egiziano non edulcorato da interessi di natura turistica, è stato interessante e devo dire, anche rilassante. Mi ha riportato all’atmosfera delle città arabe visitate in passato quando erano ancora lontani i focolai di integralismo che sarebbero apparsi in seguito a guastare i rapporti; ciò che si notava di più allora erano le usanze curiose e si apprezzava soprattutto quel tocco di esotismo che caratterizzava il mondo islamico e che costituiva la parte più intrigante per noi occidentali.

Le signore che aspettavano il loro turno fuori della polleria, dove era piazzata una gabbia a più ripiani riempita di galline vive, mentre nell’interno della bottega il “pollarolo” tirava il collo e spennava la merce, evocavano usanze nostrane, andate perse col progresso tecnologico. La visita era anche tutto un riandare a un nostro passato che ci accomunava al di là delle differenze di cultura e di religione.

Al termine della via centrale, accorgendoci che era già tardi, abbiamo fatto dietrofront tornando sui nostri passi. Superato il suq turistico e tornati sulla vasta piazza, l’ingresso ai monumenti ammiccava da lontano, promettendo gradite sorprese nella visita imminente dei siti archeologici.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – capitolo 36 – (continua)

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