ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – Immagini di una città sul Nilo – (capitolo 14) – vedi galleria fotografica

Uscendo dal tempio di Edfu bisognava ripercorrere al contrario il passaggio delle Forche Caudine, dove si era sottoposti all’immancabile fuoco di fila dei bottegai. Era un vero assalto, un arrembaggio. Per salvarsi occorreva ignorarlo evitando di mostrare interesse per alcunché: se in un attimo di distrazione gettavi l’occhio su una stoffa, una statuina, un monile, eri fritto, era come abboccare a un’esca.

Il negoziante proprietario dell’oggetto, esperto nel cogliere l’attimo fuggente, ti apostrofava a gran voce; se ti allontanavi, non esitava a inseguirti, ben determinato a non mollare la preda, e continuava a farlo lungo tutto il tragitto fino al pullman. Solo lì potevi trovare rifugio sotto le ali protettrici della guida o dell’autista.

All’assalto non partecipavano esclusivamente i venditori, perché c’erano anche schiere di postulanti interessati al cambio. Ti tallonavano con insistenza implorando “change, change” per convertire gli spiccioli ricevuti in mancia dai turisti in banconote, le sole accettate dalle banche per essere cambiate in sterline egiziane.

Tornando alla nave ho scattato alcune foto dal pullman. Stavamo attraversando il centro di Edfu, e mi interessava osservare l’aspetto delle vie e degli abitanti di una tipica cittadina sul Nilo. Per ciò che riguarda le abitazioni non si è rivelato diverso dalla zona del lungofiume che avevo osservato all’alba dalla cabina: gli edifici mostravano aspetti altrettanto strambi e fatiscenti. Quanto alla gente invece ho potuto osservare più particolari riguardo alle fogge, ai mestieri, ai movimenti delle persone e dei veicoli.

Circolavano meno carrozzelle, evidentemente erano concentrate lungo le banchine del porto, visto che la loro funzione specifica era il trasporto dei turisti al tempio. Transitavano invece, oltre alle auto, diciamo normali, e a scarse motociclette, diversi trabiccoli: tricicli a motore protetti da capote, carrelli trainati da motocicli, furgoncini con cassoni stracarichi di merci.

Quello che colpiva era l’abbigliamento della gente, che non sembrava divergere dalle fogge dei contadini. Pochi uomini indossavano abiti occidentali, perfino i classici jeans con magliette, adottati dai giovani come una divisa nella maggior parte del Maghreb, erano rari. I più indossavano djellaba lunghe fino alle caviglie, di colore neutro, in genere bianco, grigio o marrone. Gli egiziani, mi veniva da pensare, si distinguevano fra i mussulmani del Nord Africa per il conservatorismo nel vestire. Non dovevano essere diverse le tuniche portate millenni fa dai loro antenati.

Meno omogeneo l’abbigliamento femminile. Le giovani preferivano vesti lunghe o pantaloni di colore, ma non vistosi, e indossavano praticamente tutte il velo, in genere chiaro come il vestito. Ma spiccavano fra tante le sagome nere di donne incartate in mantelli informi che le ricoprivano dalla testa ai piedi lasciando scoperta appena una parte del viso. Alcune portavano in più una sorta di maschera che nascondeva il naso e la bocca, lasciando visibili solo gli occhi. Queste erano le figure più inquietanti. Non erano numerose, ma ovviamente si notavano bene. Recavano perfino sporte della spesa in tinta col colore delle vesti.

Giravano per acquisti entrando o uscendo dai negozi, in maggior parte rudimentali botteghe, dove il cibo era esposto perlopiù fuori dell’ingresso, alla polvere della strada che si levava o ogni minima brezza, dato che l’asfalto era poco presente perfino in centro città. Attendevano in fila dai fornai che esponevano i pani su scaffali collocati all’esterno di antri oscuri, che dovevano la loro parvenza di negozi solo alla saracinesca alzata, mentre dal lato opposto dell’ingresso faceva magari bella mostra un cumulo di mattoni, anche questi in vendita.

Il pavimento stradale, in genere di terra battuta, era cosparso in certi tratti di travi, pali e simili, che accrescevano l’idea di disordine che tutto l’ambiente ispirava. Il movimento delle vetture non era intenso ma confuso. Insomma l’insieme era quanto di più diverso si possa immaginare da un centro urbano europeo, con strade asfaltate, marciapiedi per i pedoni, aiuole fiorite, file di alberi, semafori per il traffico (a proposito, mi pare di non averli neanche visti in questa zona).

Ai bordi di alcune vie, baracche fatiscenti, adibite alla vendita di generi alimentari o di prima necessità, esibivano le merci appese a dei ganci o sistemate in scatole di cartone. Nelle botteghe scure e polverose dei barbieri si intravedevano arredi centenari. Un commercio minimale, senza pretese di ordine né razionalità, e che non pareva curarsi troppo dell’igiene, appariva anche negli spacci contrassegnati dalla scritta “market” sui tendoni.

Non potevano mancare certo note più al passo coi tempi, date naturalmente dagli strumenti tecnologici che non mancano oggigiorno neppure nel paese più arretrato. I negozi di cellulari che occhieggiavano ammiccanti alla modernità, incastonati fra botteghe ed empori d’aspetto medievale, riportavano alla realtà presente. Facevano riflettere su come anche quel mondo così statico e abitudinario stesse cambiando (forse).

Il movimento che animava le strade si interrompeva solo in alcuni luoghi, ovvero nei caffè. Lì i clienti, rivestiti di flemma tutta orientale, sedevano ai tavolini all’aperto o nella penombra di locali dalle pareti piastrellate, intenti a sorbire bevande, a conversare con i vicini in atteggiamento grave e malinconico, ad aspirare il fumo dei narghilè. Gettavano pure un’occhiata ogni tanto ai passanti e al traffico dei veicoli, ma di sfuggita e con aria distaccata, senza dargli importanza, quasi volendo salvaguardare al massimo il loro momento di quiete, determinati a goderselo, prima di rituffarsi nella folla per tornare alle proprie attività e ad immergersi nei problemi quotidiani.

Tornare alla nave è stato come tornare in un’oasi, ossia al conforto della nostra vita occidentale, che ai turisti di certo l’Egitto non fa mancare. D’altronde l’accoglienza degli stranieri è la fonte di reddito più cospicua del paese e una tradizione ormai secolare fa sì che il turismo sia in continua espansione e i clienti sempre più coccolati.

Quel giorno il buffet era stato allestito sul ponte aperto, che anche se riparato dalla tettoia, non poteva proteggere da un caldo canicolare. E’ stato il momento più torrido del viaggio. L’intento era ovviamente romantico, ossia di far godere ai turisti il panorama durante il pranzo, ma siccome nessuna brezza rinfrescava l’aria attutendo la morsa dell’afa, era un po’ una sofferenza. La compagnia al tavolo era piacevole, ma non poteva compensare il fastidio di quell’aria infocata.

Ho rimpianto il fresco della sala da pranzo interna, anche se devo riconoscere che gustare il cibo vedendo nel contempo sfilare ai lati le coste punteggiate di palme, paesini, minareti, era comunque emozionante. D’altronde quella temperatura rovente non faceva che alimentare la sensazione di “essere in Africa”.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto, Capitolo 14, Immagini di una città sul Nilo (continua)

Lascia un commento

error: Questo contenuto è protetto